La chiusura della visita a Galtellì

«Collaborate per davvero alla missione della Chiesa»

 

«Non tradite il vostro battesimo, conservate la fede senza stancarvi mai di pregare, togliete tutto quello che c’è d’inciampo, che vi disturba dall’essere Chiesa». È questa la consegna che monsignor Mosè Marcìa ha lasciato sabato 12 novembre alla comunità di Galtellì come messaggio conclusivo della sua visita pastorale. Per il vescovo sono stati sei giorni intensi e segnati – parole del sindaco Giovanni Santo Puddu – «dalla disponibilità a camminare insieme a noi», ma caratterizzati al termine anche dalla chiusura della Porta Santa del Giubileo della Misericordia aperta un anno fa nella chiesa del Santissimo Crocifisso.
Per tutto l’anno il paese baroniese è stato, insieme a Fonni e alla Cattedrale e alla chiesa de Le Grazie a Nuoro, al centro dell’attenzione dei fedeli. Anche a questi pellegrini ha voluto rivolgere un pensiero monsignor Marcìa nel salutare Galtellì: «Chiudere la Porta Santa, chiudere la visita pastorale vuol dire riconoscere che abbiamo accolto Cristo unico, vero Buon Pastore. E allora vi chiedo: lo abbiamo accolto? Per favore chiudete le porte del vostro cuore perché non esca la figura del Buon Pastore. Cristo Buon Pastore – è stata l’esortazione del vescovo – deve invadere la vostra vita, altrimenti la visita pastorale non è servita a nulla».
Non mancano in questo senso i segnali positivi maturati a Galtellì in questi giorni. «Oggi possiamo dirle», ha detto salutando il vescovo, il parroco don Ruggero Bettarelli «che non soltanto le attese non sono andate deluse, ma il Signore, com’è solito fare, ha donato alla comunità del Santissimo Crocifisso la sua grazia in maniera straordinaria. Una grazia che adesso tocca a noi vanificare. E siccome il Signore si è servito della sua persona, carissimo padre, vogliamo sinceramente ringraziarla per la gioia dell’incontro che ci ha permesso di sperimentare».
Dal canto suo monsignor Marcìa ha benedetto («fate un buon cammino») gli impegni presi dal parroco: «Alla nostra comunità adesso spetta di fare tesoro di quanto il Signore ha donato nel tempo della visita pastorale. Non sono mancate provocazioni e gli stimoli per lavorare e fare sempre meglio, per correggere gli errori fin qui commessi, per continuare a fare il bene il dove siamo riusciti a individuare strade e modi giusti. Un impegno però ci riguarda tutti e insieme», ha sottolineato ancora don Ruggero: «Il dovere di fraternità, la più importante testimonianza che siamo chiamati a dare al mondo. Dobbiamo continuare a crescere in quello stile di comunione che ci permetterà di essere sempre più credibili e sempre più capaci di affrontare quelle sfide che appartengono inevitabilmente alla comunità cristiana “in uscita”».
Semi nuovi gettati su un terreno fertile, altri germogli da ravvivare interrogandosi sul cosa e come essere proprio Chiesa del Cristo Buon Pastore. «Cristo vivo in mezzo a noi – ha detto monsignor Marcìa – Cristo piagato, con le piaghe, le piaghe del suo corpo mistico che è la Chiesa, noi Chiesa che col battesimo che tante volte tradiamo, siamo il suo corpo mistico piagato, non tutto è perfetto, ma è Lui, vivo, reale, in mezzo a noi, nella sua Chiesa».
Un’esortazione rafforzata dalle terza lettera di san Giovanni. «L’apostolo scrivendo a Gaio ci dice in sintesi – ha sottolineato monsignor Mosè – “sii collaboratore alla missione della Chiesa” accogliendo chi arriva in nome di Dio benché straniero. È questo il nostro modo di essere Chiesa: non pensate ad accogliere chissà chi, coloro che vengono da lontano. Certo dobbiamo accogliere i profughi: ma tu provi ad accogliere tua moglie, tuo marito, tuo figlio, tuo padre o tua madre? Provi ad accogliere tuo fratello che si è preso l’eredità di tuo padre? Provi ad accogliere il tuo vicino che ti dà solo fastidio?». Insomma, il vero senso della misericordia. Quel senso, quel vero accogliere, dimostrato nell’incontro con le coppie conviventi dove ci si è interrogati sul senso dell’amore coniugale.
«Questo è essere Chiesa, questo è essere “collaboratori della missione della Chiesa”. Noi ci mettiamo il problema di accogliere i lontani ma spesso non accogliamo i vicini», ha detto il vescovo, indicando la parola giusta: perdonare. «Ma come poter perdonare?», si è chiesto sottolineando che «spesso noi questo perdonare lo mascheriamo un po’ troppo. Diciamo: “sì, lo perdono, per carità. Anzi l’ho già perdonato, però che non si faccia più vedere…”. Fate così voi con i vostri figli? Volete che i vostri figli facciano così con voi: “io perdono, ma che non veda più né babbo né mamma… però ho perdonato”».
Solo questa può essere la base per essere collaboratori alla missione della Chiesa, «collaboratori per davvero, come Giovanni parla di Gaio». Una certezza che si accompagna alla risposta a un’altra domanda, la vera domanda che sintetizza anche la chiusura dell’anno giubilare e il termine di ogni visita pastorale. È l’interrogativo posto dal brano del vangelo di Luca appena letto: “Il figlio dell’uomo quando tornerà troverà la fede?”. «Qui a Galtellì abbiamo Su Santu Cristos – ha rafforzato il concetto monsignor Marcia – ma cosa ce ne facciamo de su Santus Cristos se non abbiamo la fede?». Un messaggio ribadito il giorno prima anche alle confraternite, sull’importanza delle tradizioni paraliturgiche che a Galtellì hanno radici molto salde. Tradizioni che perderebbero il senso reale se non sono ravvivate dal dovere di «aumentare la fede», senza la consapevolezza che il battesimo ci ha reso «figli di Dio, Sua famiglia, Sua Chiesa. Tradire il beneficio del nostro battesimo è tradire quello per cui c’è l’ha dato, rifiutare cioè di essere figli di Dio perché il battesimo ci rende tali, figli di Dio. Tradire il battesimo vuol dire tradire la Chiesa perché la Chiesa è la famiglia di Dio e noi rifiutando il battesimo, tradendo il battesimo, tradiamo la missione che il battesimo ci da».
Il figlio dell’uomo quando tornerà troverà la fede? La risposta è contenuta nello stesso brano del vangelo di Luca, con Gesù che esorta i suoi discepoli a “pregare sempre senza stancarsi mai”. Come fanno anche a Galtellì gli ammalati che, si è rallegrato monsignor Mosè, «ho trovato armati di “mitragliatrice”, con la corona perennemente in mano, per “sparare” tutto il giorno “raffiche” di rosario». Insistenti come la vedova che con la sua perseveranza riesce ad aver giustizia convincendo il giudice disonesto. «Ma che cosa dobbiamo chiedere? Qual è l’oggetto del nostro pregare? Che Dio mi tolga il mal di denti, mi trovi un posto di lavoro, mi guarisca da chissà che cosa, mi liberi dal vicino disturbatore che io non so abbracciare? O dobbiamo chiedere “Signore aumenta la mia fede, dammi la capacità di amare come ami tu e in quest’anno di misericordia dammi la capacità di amare come mi ha amato tu, io che non riesco a essere collaboratore nel costruire la tua Chiesa dammi maggior fede, dammi questa capacità di spendermi per gli altri»
Durante la messa di commiato il vescovo ha somministrato il sacramento della confermazione a un ragazzo, altri 16 sono stati cresimati il giorno dell’apertura. Un altro segno che ha permesso di ricordare che «non sapremo fare la Chiesa se non lasciamo fare allo Spirito Santo. Quindi: conservate la fede, ma unitevi allo Spirito Santo”.
Ripartire da Galtellì, passando per una porta comunque sempre aperta, sapendo di poter contare, come recita un passo dell’orazione al Santissimo Crocifisso sulla la «Tua misericordia e con il prodigio, più volte ripetuto, del sudore di sangue che ricoprì il Tuo Simulacro, hai voluto lasciarci un insegnamento, il quale, riproponendo alla nostra meditazione quanti dolori e quanti spasimi Ti sia costata la nostra Redenzione, servisse a confortarci nella fede, a ritrarci dal peccato e ad indirizzarci per la via della virtù». (m.t.)

condividi su