Nostalgia di lui

don Salvatore Angelo Chessa
(Orune, 3 agosto 1956 ♦ Nuoro, 6 maggio 2010)

Il tuo amore vale più della vita (Salmo 62,4).

Valet sa grazia tua prus de sa vida (don S. A. Chessa).

Sono passati quattro anni da quando don Salvatore Angelo Chessa è tornato a Dio, ma quanti lo abbiamo conosciuto e amato lo sentiamo, anche se in modo diverso, presente e vivo nelle nostre vite, come hanno dimostrato in questi anni la affettuosa e commossa presenza di tantissimi amici alle celebrazioni eucaristiche, in in cui la Chiesa intera e la nostra comunità di credenti esprimono la vera comunione con il defunto.
Il senso di questo ricordo, oggi, va forse ricercato anche nel bisogno umanissimo di parlare ancora insieme di questo nostro amico e maestro e di consolarci reciprocamente per quella pungente nostalgia di lui che spesso ci assale; va ricercato ancora nel desiderio di mettere insieme tutti i frammenti dei ricordi di ciascuno, ricordi indelebili di gesti carichi di affetto, di consolazione e di vera accoglienza, di parole preziose ed autorevoli che negli snodi delle nostre vite sono state una provvidenziale ancora di salvezza e in ogni situazione sono state (e saranno) parole “per noi”, riferimento sicuro perchè pronunciate da chi, per un singolare dono, riusciva a penetrare nel segreto dei cuori e a leggere con particolare sapienza le situazioni più difficili e delicate. Mettere insieme tutto questo, però, è anche il punto di partenza per cercare di superare il dato personale, il ricordo solo individuale, per quanto importanti essi siano, e tentare, anche con la raccolta e lo studio dei suoi scritti, una comprensione più profonda di questa bella figura di presbitero, ricostruire idealmente l’unità della persona, la sua statura morale e intellettuale, la sua spiritualità, la sua libertà interiore, il suo amore per la vita. Questa sintesi e questo sforzo di una sempre maggiore comprensione, se sono doverosi per quanti lo hanno conosciuto e stimato nei diversi ambiti del suo ministero, lo sentiamo come un debito di gratitudine che interpella in modo particolare la nostra comunità parrocchiale, che don Chessa ha servito e amato per dieci anni e con cui ha mantenuto nel tempo un legame particolarmente affettuoso.
Queste mie parole, allora, non vogliono essere una commemorazione in senso proprio, magari retorica e celebrativa, né tenteranno di tratteggiare in modo esaustivo la complessa e completa personalità di don Chessa, ma possono essere un primo contributo a questa più profonda rilettura della sua testimonianza di vita. Tutto questo, spero, con la semplicità, la misura e soprattutto la verità che lui tanto amava.

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“Lotterò con tutte le mie forze per guarire, ma se il Signore vuole che, come il suo popolo esiliato testimoniò la sua fede presso le nazioni straniere, anche io dia la mia testimonianza nella terra d’esilio della malattia, lo farò senza esitazione”.
Queste parole di fede, come altre simili, risalgono ai giorni del suo primo ricovero in ospedale, quindi a pochi mesi prima della sua morte. Insieme a tali espressioni, la singolare martyria offerta nei suoi ultimi giorni, quando con la convinta professione di fede, con la rinnovata adesione a Cristo, anzi col sentirsi un tutt’uno con Cristo, con la ribadita e convinta fedeltà alla Chiesa, con il perdono chiesto e donato ha interrogato ed edificato tutti noi, questa martyria, dicevo, getta una luce più intensa che ci aiuta a capire e leggere con più profondità e sapienza tutta la sua vita, di cui rappresenta, per così dire, il sigillo.
Ma poichè un simile modo di morire non si improvvisa, anzi si costruisce nel tempo con le scelte quotidiane, anche quelle apparentemente banali, nel ripercorrere i tratti salienti del suo servizio troveremo innumerevoli tracce di quell’ascesi, di quella radicalità e fedeltà, di quello spirito di orazione che lo hanno reso, per gli aspetti essenziali della fede e del ministero, rigoroso con se stesso e gli hanno fatto vivere come occasione “seria”, unica ed imperdibile ogni situazione, ogni incontro, quasi ogni scambio di battute, anche quelle più scherzose, vissuti tutti come chiamata all’annuncio e alla costruzione di relazioni vere.
Parlare di Salvatore Angelo Chessa equivale a parlare di “don” Salvatore Angelo: fin dagli anni del Seminario ha desiderato essere prima di ogni altra cosa un buon prete, l’essere prete costituiva la sua identità profonda. Così, dopo l’ordinazione presbiterale nel 1981 ha esercitato il suo ministero nel seminario diocesano come animatore e successivamente come viceparroco a Gavoi e nella nostra parrocchia del Sacro Cuore; per altri dieci anni è stato parroco a San Francesco e infine dal 2008 a San Paolo: con un impegno quotidiano assiduo, gioioso, fiducioso anche nelle molte difficoltà, specie nelle parrocchie affidate direttamente alla sua cura, ha guidato queste comunità parrocchiali aiutandole a divenire solidali e mature; dimostrandosi buono, compassionevole, accogliente, franco e schietto nel parlare ha saputo costruire un rapporto di amicizia e corresponsabilità con i parrocchiani, rapporto che lo ha arricchito nel corso degli anni di sensibilità e paternità spirituale.
Ma, oltre le parrocchie, il ricordo indelebile di don Salvatore Angelo, è legato a tanti altri “luoghi”: i campi scuola estivi con diverse generazioni di ragazzi e giovani, le città delle Giornate mondiali della gioventù, i pellegrinaggi a Lourdes e i soggiorni estivi al Monte con i malati, i sentieri del lungo Cammino di Santiago e quelli più brevi ma impegnativi sulle sue amate montagne, il povero villaggio albanese di Malkuç, San Pietro di Sorres e Galanoli per il cursillo, la Terrasanta… e ancora le aule, ma anche la sala-professori delle scuole in cui ha insegnato, le case dei malati, l’ospedale e, perchè no, la pizzeria e tutte le belle occasioni di convivialità, di incontro gioioso, di condivisione.
La poesia, l’amicizia, la fede sono state le “armi” grazie a cui ha potuto convivere con quella che è stata la compagna fedele dell’esistenza sua e dei suoi familiari: la sofferenza. Il suo “superiore vangelo della sofferenza”, come avrebbe detto Giovanni Paolo II, lo ha trasformato nel “parroco crocifisso”, espressione con cui egli si presentò ai nuovi parrocchiani di San Francesco. Il suo Calvario spirituale ha lasciato in lui segni profondi e mai nascosti, non cicatrici, ferite cioè che non sanguinano, non fanno più male. Semmai, come nel Cristo risorto e nell’amato Francesco d’Assisi, ha lasciato vere e proprie stigmate, ferite fresche impresse nell’anima, sangue vivo, amore reale (cfr. A. Cencini, Verginità e celibato oggi) che hanno reso la sua vita feconda e il suo annuncio credibile. Ma il soffrire e il quotidiano confrontarsi drammaticamente con la forza dirompente della violenza e il mistero del male non lo hanno chiuso in se stesso, incattivito o reso triste: gli amici anzi gli sono stati più preziosi, si sono ancor più confermate e rafforzate la mitezza e la misericordia e il sorriso, l’ironia, talvolta pungente, le battute fulminanti, quella gioia intima che niente può strapparci, la poesia stessa hanno ripreso a sgorgare e a dirci, con le parole di un poeta come lui, che per chi crede la vita scorre luminosa sotto le lacrime (S. Angelucci, I capelli degli angeli in Verticalità).
Tra i suoi tanti doni, quello di arrivare al cuore per la semplicità e la profondità del suo annuncio: con le sue omelie e le sue catechesi, in parrocchia come nei nostri santuari mariani e nei gruppi che animava sapeva catturare l’attenzione di tutti: al centro c’era sempre la Parola di Dio, di cui proponeva una lettura meditata personalmente e una concreta attualizzazione, trasmettendo ai laici il suo amore per la Scrittura.
Ma anche il tempo della malattia è stato per tutti noi un singolare pulpito: prima dal suo letto d’ospedale, con l’accoglienza piena di amicizia e di sorrisi, nonostante la sofferenza fisica, ai visitatori che, con ritmo incessante, gli manifestavano il loro affetto; poi nel silenzioso periodo trascorso a casa, sottratto alla vista dei più, ma sempre presente nel pensiero di tutti; infine quando, dono misterioso e inaspettato, ci è stato, per così dire, riconsegnato, per l’ultimo saluto prima della morte, con quel corpo segnato e irrimediabilmente trasformato dalla malattia, testimonianza muta ed efficace di quel calvario che non abbiamo potuto vedere.
Anche dopo il suo ritorno a Dio è stato capace di porgerci un’ulteriore e definitiva testimonianza di fede: grazie alla sua famiglia e ai sacerdoti suoi amici, i giorni del congedo sono stati uno straordinario momento di vita ecclesiale: un fiume di persone si è riversato nella “sua” chiesa, per rendergli omaggio, per tributargli quel riconoscimento che non sempre e non da tutti ha avuto in vita, ma anche, credo, per trovare consolazione e senso per quella dolorosa e incomprensibile perdita: e il senso è stato dato non ai singoli, ma ad una comunità che, radunata da lui, ascoltava, come abbeverandosi, il racconto del suo congedo dalla terra, del suo abbandono, dei salmi, i “suoi” salmi, cantati anche se con un filo di voce, del suo desiderio dell’incontro con Dio: tutti ad ascoltare, come al tempo degli apostoli ci si radunava per ascoltare il racconto dei gesti e delle parole di Gesù; e quel racconto era già consolazione cristiana, era già la spiegazione, il senso di quanto era accaduto, l’invito non ad accettare semplicemente, ma ad adorare la volontà del Padre.
Per questa vita e anche per questa morte vogliamo oggi, insieme ai suoi familiari, dire il nostro grazie, chiedendo anche in dono che diventino nostri due begli atteggiamenti di don Salvatore Angelo: il grande amore per la vita, che ci consenta di camminare e operare nel mondo con la sua stessa passione; il sapere con ferma certezza quale sia la meta di questo camminare, insieme all’anelito intenso e struggente del volto di Dio, che ci consenta di rivolgergli ogni giorno, nella comunione dei santi, quell’ “addio” che, come lui ci ha insegnato, non ha il sapore amaro del congedo definitivo, della fine di tutto, ma il profumo soave dell’attesa di un nuovo Incontro, in Dio.

Teresa Mattu

6 maggio 2014

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